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Incontro con Don Burgio: educare è una speranza

Cosa vuol dire essere pellegrini di speranza? Come la si sperimenta nella vita di tutti giorni? Come si lega al tema dell’educazione? È stato questo il cuore dell’incontro di venerdì 21 febbraio con don Claudio Burgio, organizzato dal gruppo “Amici in cammino” in Sala Gianna Beretta Molla. Un incontro che non si è limitato a offrire risposte, ma ha messo in discussione, ha provocato, ha interrogato ciascuno.

Don Claudio ha parlato con la concretezza di chi vive ogni giorno accanto ai giovani delle comunità Kayrós e del carcere minorile Beccaria, giovani che spesso hanno perso la fiducia in sé stessi e negli altri, che faticano a trovare un significato per cui valga la pena vivere. “Il vero problema non è la morte,” ha detto, “ma morire ogni giorno perché non trovi il senso di quello che fai.” È qui che la speranza diventa decisiva: non come una semplice illusione, ma come la possibilità reale di un cambiamento. La speranza non è qualcosa che si possiede, è qualcosa che si costruisce e il cristiano sa che essa ha un fondamento solido, perché è legata a un Altro che ci accompagna e ci precede.

Ma la speranza non esiste senza libertà. Educare significa innanzitutto lasciare liberi, non sostituirsi all’altro, non imporgli il bene, ma aiutarlo a riconoscerlo. “Non vali perché produci risultati,” ha ricordato don Claudio, “il mito dell’eccellenza che domina la nostra società è disumano, perché lega il valore della persona a ciò che riesce a fare, non a ciò che è.” E allora educare diventa un atto di amicizia e di accoglienza: uno sguardo che dice all’altro “tu vali”, indipendentemente dai suoi errori e dalle sue cadute.

Nel mondo di oggi, dove tutto sembra livellarsi e le differenze vengono annullate in nome di una rigida uniformità, il cristianesimo fa ancora la differenza? Non è forse diventato una bolla, un rifugio per chi non vuole fare i conti con la realtà? Eppure, proprio nella realtà più dura, più scomoda, il cristianesimo dovrebbe continuare a mostrare il suo volto più vero: quello di un’umanità piena, capace di gioia e gratitudine, capace di abbracciare il dolore e la fragilità senza soccombere. “Anche una storia sbagliata è una storia sacra,” ha detto don Claudio. Perché nulla della nostra vita è inutile e tutto può essere riscattato dentro uno sguardo più grande.

Alla fine dell’incontro, don Andrea ci ha lanciato una provocazione: chi siamo? Possiamo essere un’oasi nel deserto? È una domanda che riguarda ciascuno di noi, la nostra parrocchia, il nostro oratorio, la nostra comunità cristiana. Non per rifugiarci in una nicchia rassicurante, ma per essere davvero, nel mondo, un segno concreto di speranza.

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