“Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete” (Mt 6,25).
Nel cuore inquieto dell’uomo moderno, dove le ore scorrono con il peso del dover fare, del dover ottenere, del dover controllare, le parole di Gesù giungono come una vertigine. Il loro tono non è un invito generico alla leggerezza, ma una rottura profonda con la logica del possesso e della prestazione.
Quante volte siamo preoccupati di dimostrare il nostro valore, di meritare i nostri affetti, di avere sotto controllo la situazione della nostra vita? Sant’Agostino che ha conosciuto la frenesia dell’anima dispersa tra i tanti e differenti desideri del mondo, alla fine della sua ricerca ha compreso l’essenziale del nostro vivere: “Ci hai fatti per Te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te” (Confessioni, I,1,1).
È il grido di chi ha compreso che la preoccupazione non è solo la schiavitù dell’ansia: è dislocazione. È il cuore che si sposta lontano dalla sorgente della Vita per inseguire pozzi scoperchiati. Il brano evangelico non condanna il desiderio di sopravvivenza, ma lo ridimensiona alla luce della fiducia. È come se Gesù dicesse: “Non è il pane che ti tiene in vita, ma l’amore di un Padre che conosce ogni fibra della tua esistenza”.
Ci viene chiesto di non cadere sotto il giogo della preoccupazione che in questa pagina di Vangelo è sinonimo di paura del domani, paura di non sopravvivere, paura di non farcela, paura che diventa tutto e colonna sonora di ogni situazione… Non ci viene chiesto di non dubitare o di parci se le cose vanno male o s’intravvedono difficoltà all’orizzonte, ci viene chiesto di non rimanere vittime della preoccupazione, perché non siamo soli nelle cose che avvengono nella nostra esistenza!
Questo è il centro segreto della fede: non una garanzia di esenzione dal dolore, ma una compagnia incrollabile nel cammino. “Non preoccupatevi per la vostra vita…” (Mt 6,25), quando Gesù consegna ai suoi Discepoli queste parole, non parla come un moralista che redarguisce, ma come un Maestro che conosce le conseguenze interiori e profonde della paura.
Del resto la preoccupazione, nel senso letterale di “occuparsi prima del tempo” è una forma di alienazione. Ci strappa dal presente, ci sottrae alla vita reale, ci proietta in uno scenario immaginario dove il male è sempre in agguato, è un’anticipazione del dolore che, in molti casi, è più paralizzante del dolore stesso. Massimo Recalcati, in uno dei suoi scritti, osserva: “La paura della mancanza genera mostri: trasforma il desiderio in angoscia, la fiducia in diffidenza, la libertà in controllo.” (tratta da “Le mani della madre”, 2015).
In questa chiave, possiamo leggere la parola evangelica come un invito non solo alla fede, ma a una guarigione del desiderio. Quando la vita è governata dalla paura, la preoccupazione diventa una prima idolatria: ci si affida più all’ansia che a Dio, più al controllo che alla fiducia. La paura, secondo Recalcati, nasce spesso da un’esperienza di assenza dell’altro, come se nessuno potesse veramente prendersi cura di noi. “È il volto interiore dell’orfanezza”.
Ecco allora la forza del messaggio evangelico: tu non sei solo. C’è un Padre che vede, nutre, veste, conosce. Il Regno di Dio, che Gesù ci invita a cercare prima di ogni altra cosa, non è un’utopia irreale, ma la scoperta del volto del Padre in mezzo alle fragilità del vivere.
Come il giglio che non fila, eppure è vestito di gloria, così l’uomo che si affida diventa immagine fiorita della Provvidenza. Ma questo accade solo nel tempo lento della fiducia, quando si smette di voler sempre risolvere per lasciarla accadere. Chi cerca il Regno, non evade dalla realtà: la penetra. E trova lì, nella trama umile degli istanti, un bene che non si può comprare, l’amore che non si può meritare, la pace che non si può rubare.
Questa pagina bellissima del Vangelo è un invito a contrastare l’idolatria della preoccupazione. Come dice un autore spirituale “Preoccuparsi è il modo in cui la carne tenta di supplire alla grazia”. In altre parole, quando smettiamo di fidarci della Provvidenza, ci carichiamo addosso il peso del mondo e ne restiamo schiacciati.
Cari parrocchiani, Gesù non ci chiama affatto a una vita irresponsabile, ma a una vita più vera, liberata dal bisogno compulsivo di garanzie. La fede non è fuga dalla realtà, ma fiducia nella realtà abitata da Dio. E forse il primo passo per entrare nel Regno è proprio questo: smettere di pensare che tutto dipenda da noi, e iniziare a credere che, come dice il Vangelo, “il Padre vostro celeste sa di cosa avete bisogno” (Mt 6,32). È un atto di fiducia in ognuno, e che tutto spinge verso l’utilità di tutti.
don Giovanni Pauciullo