Tutto il testo di Gv 11,1-53 ruota intorno all’immagine del sepolcro. Solo alla fine, negli ultimi versetti, troviamo il racconto della risurrezione di Lazzaro. Oggi siamo chiamati a guardare a quei sepolcri che ci siamo costruiti da soli o nei quali la vita ci ha buttato, per chiedere al Signore di essere liberati: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele» (Ez 37,12). Tutti ci troviamo nella condizione di Lazzaro, il cui nome significa Dio aiuta. La chiave per comprendere questo testo di Giovanni si trova infatti nelle parole che i messaggeri, mandati da Marta e Maria, portano a Gesù: «Colui che tu ami, è malato». Siamo noi. Sono io colui che Gesù ama e che è malato. Questa è la realtà di ciascuno di noi. Gesù non si rassegna davanti a questa malattia e viene in quel mondo che è Betania, nome significativo anche in questo caso, perché vuol dire casa della sofferenza.
In questo mondo, che è la casa della sofferenza, Gesù viene a svegliarmi. Entrare nella sofferenza di un altro per guarirlo ha sempre un prezzo. Nel testo infatti i discepoli sono meravigliati di questa iniziativa di Gesù, perché vuole tornare in Giudea dove hanno appena cercato di lapidarlo. Gesù è disposto ad affrontare la morte per salvare l’amico: questo è l’amore! Del resto, poco più avanti, nel Vangelo di Giovanni, Gesù stesso dirà: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Ricordiamoci anche che nel Vangelo di Giovanni, la guarigione di Lazzaro sarà uno dei motivi che accelererà il processo contro Gesù, perché quella risurrezione è considerata dai Farisei e dai Giudei come scandalosa e pericolosa.
Davanti al sepolcro, davanti alla sofferenza e alla morte, ciascuno di noi reagisce in modo diverso. E a partire da quel sepolcro, ciascuno è chiamato a percorrere il suo cammino di conversione. Marta, per esempio, si renderà conto che, a fronte di tutte le cose che sa su Dio, nel profondo non crede che Gesù possa cambiare la vita delle persone. Nel testo, infatti, più volte, Marta ripete «io so». La sua fede è fatta di conoscenze, forse di studio e di approfondimento. Ma quando Gesù dice di rimuovere la pietra dal sepolcro di Lazzaro, Marta vorrebbe fermarlo, perché il cadavere manda già cattivo odore! Marta ha bisogno di percorrere quel cammino che porta dal sapere delle cose su Dio al credere in Gesù. Del resto è la domanda che Gesù stesso le rivolge: «chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?» (Gv 11,26). La risposta di Marta, che dice di credere, è però smentita dalla sua reazione davanti al comando di Gesù.
Il sepolcro diventa talvolta il luogo del nostro lamento, il pretesto per trasformare la nostra vita in una commiserazione senza fine. Un motivo per non prendere in mano le nostre situazioni. Maria, l’altra sorella di Lazzaro, è ferma, seduta in casa, immobile. Il verbo che maggiormente le viene attribuito è piangere. Sembra che nella sua vita non sappia fare altro. Chi la vede piangere, persino Gesù, è travolto dalla sua commozione. Il pianto di Maria è contagioso. Ma anche per lei c’è una parola: «il maestro è qui e ti chiama» (Gv 11,28). Gesù ti chiama a uscire da quella vita che hai trasformato in un sepolcro. Non restare immobile, seduta sul pavimento della tua casa, trasformandola nel luogo del tuo lamento. Gesù ti chiama a uscire e a ritrovare la speranza.
Cari parrocchiani, Gesù ridona vita a un cadavere che è già in decomposizione. A volte forse ci sentiamo proprio così, perduti e senza futuro. Ritornare a vivere sembra impossibile. Gesù toglie la pietra pesante che sta schiacciando la nostra vita. Apre i nostri sepolcri, ma siamo noi che dobbiamo avere il coraggio di uscire e di affrontare la realtà. Questo cammino di liberazione non è immediato: Lazzaro ha i piedi e le mani legate dalle bende. Dio si serve di mediazioni: chiede ad altri di sciogliere quei legami. Forse anche noi siamo chiamati ad accogliere queste mediazioni nella nostra vita o a diventare mediazione per altri, portando libertà e speranza.
Il vostro parroco,
don Giovanni