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La Festa Patronale 2025: una comunità immersa nella realtà

Chissà cosa resta, quando si spengono le luci. Quando i tavoli vengono puliti, il pavimento spazzato, i pannelli della mostra riconsegnati. Quando si raccolgono le ultime carte da terra e qualcuno, ancora una volta, cucina l’ultima salamella.
Resta qualcosa, se il cuore è stato rivolto al Signore.

La festa patronale 2025 si è conclusa. Due settimane intense, piene. Fatte di voci, mani, passi. Di bambini che giocano, adulti che servono, giovani che cantano, famiglie che si ritrovano. Una festa che, come ogni anno, ha portato in superficie il bello e le fatiche della nostra comunità. La vita.

Papa Francesco lo ha detto con forza: “La Chiesa dev’essere aperta a tutti. Tutti? Tutti.” E questa apertura, così evangelica, ha un prezzo. Non è comoda, non è semplice. Tenere aperte le porte significa accogliere anche ciò che non si controlla, ciò che mette in discussione, ciò che non sempre risponde alle nostre aspettative.

Durante questi giorni abbiamo vissuto momenti meravigliosi. Ma anche tre situazioni difficili, tese. Una, paradossalmente, è avvenuta proprio mentre sul palco si parlava di carismi educativi e di comunità come luogo generativo. È stato un contrasto simbolico, che non possiamo ignorare.

Perché la verità è questa: la comunità vive immersa nella realtà, non accanto. E la realtà, anche a pochi metri dal nostro oratorio, è complessa. A volte stanca, a volte graffia.

Tenere insieme tutto questo è lo sforzo del Vangelo: non chiudere gli occhi, non isolarsi, non rispondere con pregiudizi o preconcetti. Ma guardare la realtà con le lenti dell’esperienza, giudicandola proprio con gli strumenti del Vangelo. Per continuare ad accogliere, a interrogarsi, a cercare il bene anche quando è difficile da vedere.

La festa ha fatto emergere anche questo: legami e fratture, un’unità sentita e gruppi parrocchiali che faticano a parlarsi. Ma sempre e comunque una quantità straordinaria di gratuità, di generosità, di voglia di fare bene insieme.

Persone che si sono messe al servizio, giorno dopo giorno, con discrezione, con umiltà, con il desiderio di costruire qualcosa di bello.

Una testimonianza viva di ciò che significa essere Chiesa: non perfetti, ma in cammino.

E allora sì, la festa è stata un segno. Un segno che vale la pena custodire, rileggere, rilanciare.
Perché quando si lavora insieme per un bene più grande, tenendo fisso lo sguardo su un Altro e non su noi stessi, anche le fatiche si fanno occasione di crescita. Anche gli inciampi diventano parola. Anche un litigio può aprire un percorso.
Come ci ha insegnato la mostra, tutto può essere occasione di missione, di speranza, se il cuore resta aperto.

Ma non basta tenere le porte aperte. Una volta entrati, chi si incontra?
Chi accoglie, chi ascolta, chi è capace di raccontare con la propria vita la novità del Vangelo?

Questo ci interpella: che coscienza ha di sé il singolo? Che comunità si incontra?
Non si tratta solo di essere accoglienti, ma di essere testimoni, uomini e donne che — pur zoppicando — riconoscono di essere stati chiamati a vivere e annunciare una novità di vita, che viene da un Altro, che è il Vangelo stesso.

È questo il cammino che continua, oggi più che mai.
Ed è lì che vogliamo tornare a camminare, insieme.

Grazie a tutti. E ora, con le porte ancora aperte, riprendiamo il cammino. Tutti. Tutti davvero.

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