Sabato 5 aprile abbiamo vissuto il giubileo parrocchiale presso la basilica di Sant’Ambrogio, uno dei luoghi sacri giubilari presenti nella Diocesi di Milano.
Alcuni di noi si sono dati appuntamento sul sagrato della nostra chiesa per raggiungere la Basilica a piedi. È stato un gesto semplice, privo di solennità esteriori, che si è rivelato però, per molti, un momento prezioso.
Non è stato un pellegrinaggio nel senso classico del termine. Non è stato un cammino scandito da preghiere, canti o meditazioni. È stato un cammino di comunità. Un tempo gratuito in cui si è camminato fianco a fianco, parlando del più e del meno, intrecciando storie, fatiche, entusiasmi, raccontandoci le vicende personali e le esperienze comunitarie: l’oratorio, la società sportiva, le iniziative parrocchiali… Insomma, la vita.
Grandi e piccoli, volti familiari e volti nuovi. Insieme abbiamo condiviso una semplice passeggiata e quell’insieme si è rivelato qualcosa di più grande. Camminando si è fatta strada una consapevolezza: ciò che ci tiene uniti non è solo la vicinanza fisica o l’appartenenza a una stessa parrocchia, ma qualcosa di più profondo, che ci precede e ci sostiene. Una comunione che nasce dalla stessa fede e dalla stessa speranza.
Arrivati alla basilica siamo stati accolti da Monsignor Carlo Faccendini, abate di Sant’Ambrogio. Le sue parole hanno fatto emergere con chiarezza quel filo invisibile che univa il nostro camminare al motivo per cui eravamo lì. Ha evocato Sant’Agostino e il suo stupore per il rapporto tra Ambrogio e il suo popolo: “Persone diverse raccolte e accomunate dalla stessa fede”. E davvero quella varietà di volti, di storie, di percorsi, che avevano condiviso pochi istanti prima una semplice camminata, diventava l’immagine viva e concreta di una comunità in cammino, mossa dal desiderio di ritrovarsi in Cristo.
Monsignor Faccendini ha poi rivolto a tutti una domanda semplice e bruciante: “Che prezzo pago per la mia fede?” Non ci vuole molto a capire che camminare da Pratocentenaro a Sant’Ambrogio non è certo un prezzo paragonabile a quello pagato dai martiri, ma la domanda resta. E ci interpella. Perché ci chiede conto della nostra coscienza e ci provoca a una responsabilità: custodire il dono della Fede, non darlo per scontato, rinnovarlo ogni giorno.
Ecco il senso più profondo del Giubileo: un tempo in cui rinnovare lo sguardo e riscoprire, nella concretezza della nostra vita, la speranza che ci è stata data.
Una speranza che non nasce dall’illusione, né si fonda su un ingenuo ottimismo. Come ci ricorda Papa Francesco: “Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio.”
Ma la speranza cristiana non si limita a desiderare il bene: affonda le sue radici in un fatto. Gesù Cristo, morto e risorto, ha vinto il peccato e la morte, e ci ha resi partecipi della sua vita nuova. Per questo “spes non confundit”, la speranza non delude.
Il cammino verso Sant’Ambrogio, il gesto del Giubileo, la compagnia vissuta in quel sabato mattina, tutto questo è stato segno di una promessa: Dio non si stanca di cercarci e ci raduna, ci unisce, ci accompagna. Anche quando non ce ne accorgiamo. Anche quando parliamo del più e del meno. Anche quando solo camminiamo.